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Lo sviluppo sostenibile non può diventare aria fritta

Amazzonia

Un concetto introdotto dalla prima conferenza ONU sull’Ambiente nel 1972 sta diventando lo scudo per perpetuare le peggiori nefandezze.

 

di Mario Apicella

In un pianeta seriamente compromesso dalle attività definite “antropiche”, ma che in realtà avvantaggiano solo gli interessi economici di pochissimi “azionisti di maggioranza”, lo scudo maggiormente utilizzato per non essere attaccati e per perpetuare le peggiori nefandezze sta diventando lo “sviluppo sostenibile”; rifugio sicuro in cui spesso si nasconde la mancanza di scrupoli con cui si continua a gestire ogni attività economica, eludendo l’etica e gli stessi costi indotti che ogni speculazione produce. Conteggiando solo i costi diretti della propria impresa, cercando di ridurli il più possibile e fregandosene completamente dei costi indiretti che ogni comunità deve subire per illeciti profitti, l’economia di rapina nelle cui mani è il potere mondiale prova tutte le strategie possibili e immaginabili per continuare a gestire le materie prime e le conseguenti cure di cui il pianeta e la sua popolazione, a causa del loro scriteriato sfruttamento, necessitano.

Il concetto di Sviluppo Sostenibile venne introdotto nel corso della prima conferenza ONU sull’Ambiente nel 1972, quando in Europa occidentale le piazze si riempivano di operai e studenti che protestavano contro il ritmo disumano dei lavori più alienanti e contro l’indottrinamento con cui l’istruzione pubblica sottometteva, agli interessi dell’economia emergente, tutte le generazioni che si succedevano.
La definizione utilizzata sanciva che può considerarsi sostenibile la “condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.

Nel 1987, dopo 15 lunghissimi anni, la Commissione mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, nel Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, riconobbe che serve realizzare uno sviluppo economico che abbia come finalità principale il rispetto dell’ambiente, ammettendo che i paesi più ricchi dovranno “adottare processi produttivi e stili di vita compatibili con la capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attività umane”.

Se questo postulato della sostenibilità deriva dallo studio dei sistemi ecologici, con i loro impliciti e complessi equilibri e con proprietà che evidenziano i rischi di “alterazioni irreversibili”, non possiamo dimenticare che una delle più belle Costituzioni del mondo, ancora in vigore anche se per niente realizzata, sanciva già nel lontano 1947, all’articolo 41, che “l’iniziativa economica privata … non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” mentre l’articolo 44 aggiungeva che “al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata…”.

Il logico concetto di sviluppo sostenibile postulato alla fine degli anni ’80, preoccupando non poco per la sua visione troppo ambientalista, viene subito rimodulato in modo (ci venne e ci viene spiegato) “più globale”, considerando, oltre alla dimensione ambientale, anche quella economica e quella sociale in stretto rapporto tra di loro, anche al fine di superare l’ormai smascherata definizione di progresso e di benessere che misurava e continua a misurare la ricchezza e la crescita economica in base al piatto e freddo parametro bidimensionale del Prodotto Interno Lordo (tutti i beni e i servizi destinati al consumo prodotti sul territorio di un Paese in un dato periodo di tempo escluse le prestazioni a titolo gratuito o l’autoconsumo) che vuol far credere che le tribù dell’Amazzonia sono troppo povere e che l’Occidente è davvero ricco e, grazie al progresso, pieno di benessere!

Di fatto capiamo tutti, anche se non ce lo spiegano volentieri, che essendo per lo sviluppo sostenibile il capitale naturale molto più importante e consistente dell’impermanente capitale creato dall’uomo, la ricchezza che stiamo rubando alle tribù dell’Amazzonia e all’intero pianeta è di gran lunga maggiore di quella prodotta: dall’industria mangimistica che delinque deforestando per produrre soia transgenica, da quella dell’olio di palma che sta deforestando il sud est asiatico per rifornire le nostre blasonate famiglie e SpA dell’industria dolciaria, dall’utilizzo scriteriato delle fonti energetiche, dalla speculazione fatta su biomasse forestali, biodiesel e bioplastiche, per finire alla produzione di energia elettrica con finte energie rinnovabili, che per pura speculazione economica (basata più su incentivi contrattati che sul valore di mercato) immettono nell’aria tonnellate/ora di sostanze climalteranti o reiniettano nel sottosuolo sismicità indotta o distruggono interi territori per creare laghi artificiali da far precipitare su gigantesche turbine.

Il tutto a costante danno del sequestro di carbonio che la fotosintesi naturale dei boschi e delle foreste, la sostanza organica del terreno e la biodiversità naturale realizzano quotidianamente e costantemente per rallentare il danno che quattro potentati stanno infliggendo al pianeta.

In un prossimo intervento sarà interessante analizzare la demagogia con cui i politicanti stanno affrontando l’Agenda 2030 promossa dall’Assemblea generale dell’ONU, che dal 2015 lancia 17 logici e obsoleti obiettivi per raggiungere un ideale sviluppo sostenibile con cui “trasformare il nostro mondo”.
Concludo per oggi ricordando che, ovunque riecheggia il paradossale concetto che la sostenibilità ambientale deve essere bilanciata dalla sostenibilità economica, c’è sempre uno sponsor che la nostra intelligenza deve saper circoscrivere al fenomeno da baraccone che rappresenta, ben coscienti che non basta ridicolizzare i burattini che ci governano se non si è compreso chi è Mangiafuoco.

 

Mario ApicellaMario Apicella nasce nel 1957 a Bari dove si fa conoscere come cantautore e audace paracadutista. Si è laureato nel 1984 in Scienze Agrarie discutendo una tesi sulla coltivazione della canapa nei paesi tropicali e sub tropicali. Dopo aver diretto un servizio di giardinaggio per delle cliniche private e aver cresciuto due meravigliosi figli, nel 2000 si è trasferito in Toscana dove ha iniziato a praticare la libera professione esclusivamente nell’ambito delle aziende biologiche, collaborando con le istituzioni più sensibili per valorizzare la biodiversità agraria e la gestione agroecologica dei territori.
Oggi con sua moglie Janina ha altri quattro bambini e continua a fare l’agronomo, è il portavoce del Biodistretto del Monte Amiata e gestisce lo Sportello Verde di Carmignano, Comune da cui si sente adottato e per il quale ha redatto un importante Regolamento per l’uso razionale dei pesticidi e un Atlante delle produzioni naturali e tradizionali, dei servizi e dell’ecoturismo di Carmignano.